Sentenza n. 257 del 2022

SENTENZA N. 257

ANNO 2022

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Daria de PRETIS

Giudici: Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 23, comma 6, del decreto legislativo 5 dicembre 2005, n. 252 (Disciplina delle forme pensionistiche complementari), promosso dalla Commissione tributaria provinciale di Latina nel procedimento vertente tra M.F. C. e l’Agenzia delle entrate – Direzione provinciale di Latina, con ordinanza del 21 luglio 2021, iscritta al n. 181 del registro ordinanze 2021 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 47, prima serie speciale, dell’anno 2021.

Visto l’atto di costituzione di M.F. C.;

udito nell’udienza pubblica del 22 novembre 2022 il Giudice relatore Luca Antonini;

udito l’avvocato Maria Antonietta Criscuoli per M.F. C.;

deliberato nella camera di consiglio del 22 novembre 2022.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 21 luglio 2021 (reg. ord. n. 181 del 2021), la Commissione tributaria provinciale di Latina solleva questioni di legittimità costituzionale dell’art. 23, comma 6, del decreto legislativo 5 dicembre 2005, n. 252 (Disciplina delle forme pensionistiche complementari), in riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione.

1.1.– La Commissione rimettente deve decidere il ricorso avverso il silenzio rifiuto dell’Agenzia delle entrate sull’istanza di rimborso dell’imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF) versata negli anni 2015, 2016 e 2017 da un «ex dipendente INPS, titolare di pensione integrativa dal 01.08.2010, erogata dall’apposito Fondo». Nel giudizio a quo il contribuente lamenta che tale trattamento integrativo sarebbe stato cumulato con quello ordinario, «con applicazione dello stesso regime fiscale degli altri redditi», anziché «essere tassato separatamente sulla base dei criteri» di cui all’art. 11, comma 6, del d.lgs. n. 252 del 2005, ossia con una ritenuta a titolo di imposta compresa tra il 9 e il 15 per cento.

1.2.– L’ordinanza elenca in premessa i tre regimi che si sono succeduti «[i]n relazione al trattamento fiscale delle pensioni integrative»: a) il decreto legislativo 21 aprile 1993, n. 124, recante «Disciplina delle forme pensionistiche complementari, a norma dell’articolo 3, comma 1, lettera v), della legge 23 ottobre 1992, n. 421», applicabile alle prestazioni previdenziali integrative fino al 31 dicembre 2000; b) il decreto legislativo 18 febbraio 2000, n. 47 (Riforma della disciplina fiscale della previdenza complementare, a norma dell’articolo 3 della legge 13 maggio 1999, n. 133), applicabile alle medesime prestazioni nel periodo dal 2001 al 2006; c) il d.lgs. n. 252 del 2005.

L’art. 23, comma 5, di quest’ultimo decreto legislativo consentirebbe, secondo il giudice a quo, di applicare al settore dell’impiego privato il regime fiscale agevolato di cui al richiamato art. 11, comma 6, per le prestazioni previdenziali integrative maturate a partire dal 1° gennaio 2007, mentre il successivo comma 6 disporrebbe per i dipendenti pubblici un diverso regime transitorio, avendo differito tale regola fino all’entrata in vigore del decreto legislativo ivi previsto e, nel frattempo, lasciato ferma la vigenza del precedente regime fiscale.

Il rimettente rileva quindi che, non essendo stato adottato tale decreto, le prestazioni previdenziali dei dipendenti pubblici sarebbero rimaste assoggettate al regime anteriore al d.lgs. n. 252 del 2005 ben oltre la scadenza del termine per l’esercizio della delega, fino all’entrata in vigore della legge 27 dicembre 2017, n. 205 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020), il cui art. 1, comma 156, ha esteso il regime fiscale del d.lgs. n. 252 del 2005 alla previdenza complementare dei dipendenti pubblici, ma solo con effetto dal 1° gennaio 2018, avendo espressamente fatto salva la disciplina previgente per le prestazioni anteriori.

L’ordinanza richiama, in proposito, la sentenza di questa Corte n. 218 del 2019, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 23, comma 6, del d.lgs. n. 252 del 2005, nella parte in cui prevedeva che il riscatto della posizione individuale fosse assoggettato a imposta ai sensi dell’art. 52, comma 1, lettera d-ter), del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi), anziché ai sensi dell’art. 14, commi 4 e 5, dello stesso d.lgs. n. 252 del 2005.

Ad avviso del rimettente tale pronuncia, fondata sulla disparità di trattamento tra dipendenti privati e pubblici a fronte di forme di previdenza complementare aventi identità di ratio, sarebbe tuttavia limitata al regime fiscale del riscatto, e non avrebbe dunque riguardato quello delle prestazioni pensionistiche di cui all’art. 11, comma 6, del d.lgs. n. 252 del 2005.

1.3.– Di quest’ultima previsione, in combinato disposto con quella dell’art. 23, commi 5 e 6, dello stesso decreto legislativo, l’ordinanza esclude la possibilità di un’interpretazione costituzionalmente orientata, eppure prospettata dal ricorrente, trattandosi «di una non consentita disapplicazione di una norma di chiara portata».

Di conseguenza si manifesterebbero «gli stessi dubbi di compatibilità costituzionale che hanno già portato a una declaratoria di incostituzionalità dell’art. 23, c. 6, sotto altro profilo».

2.– Quanto alla rilevanza delle questioni sollevate, l’ordinanza osserva che, per le ragioni già esposte, per un verso, non sarebbe possibile «una esegesi costituzionalmente orientata dell’art. 23, c. 5 [recte: comma 6], d.lgs. n. 252/2005, dato il suo chiaro tenore letterale», per altro verso che «il caso di specie non ricad[rebbe] nell’ambito demolitorio» dell’art. 23, comma 6, del citato decreto operato dalla sentenza n. 218 del 2019 di questa Corte.

Le questioni sarebbero in ogni caso rilevanti anche alla luce dello ius superveniens costituito dall’art. 1, comma 156, della legge n. 205 del 2017, poiché l’estensione ai dipendenti pubblici del regime fiscale di cui all’art. 11, comma 6, da quello disposta, si applicherebbe dal 1° gennaio 2018 «solo ai ratei di pensione maturati successivamente, e non anche a quelli precedenti, non avendo portata retroattiva».

Poiché l’oggetto del giudizio riguarderebbe i periodi di imposta 2015, 2016 e 2017, sarebbe quindi «indispensabile dichiarare» l’illegittimità costituzionale della norma censurata.

Infine, la rilevanza non sarebbe esclusa dalla regola transitoria dettata sia dall’art. 23, comma 5, secondo periodo, del d.lgs. n. 252 del 2005, sia dal citato art. 1, comma 156, terzo periodo, secondo cui, per i soggetti ivi indicati, «relativamente ai montanti delle prestazioni accumulate» fino alla data rispettivamente indicata, «continuano ad applicarsi le disposizioni previgenti».

Ad avviso del rimettente, «non si p[otrebbe] far leva sulla circostanza che i montanti della pensione complementare del ricorrente sono maturati entro il 31.12.2000, in quanto il relativo fondo è cessato in data 1.10.1999»; infatti, la disciplina previgente fatta salva dalle citate disposizioni riguarderebbe i montanti, «vale a dire i contributi versati», e non il regime fiscale delle prestazioni previdenziali, oggetto del giudizio a quo.

3.– In punto di non manifesta infondatezza, l’ordinanza ravvisa «un contrasto con l’art. 3 Cost. in quanto situazioni sostanzialmente identiche, ossia le pensioni complementari, vengono trattate in modo diverso e deteriore nel pubblico impiego rispetto all’impiego privato».

Ciò in quanto l’art. 23, comma 6, del d.lgs. n. 252 del 2005 non prevede l’applicazione del precedente art. 11, comma 6, alle prestazioni pensionistiche complementari corrisposte a dipendenti pubblici a partire dal 1° gennaio 2007, come invece disposto per i dipendenti privati dal primo periodo del comma 5 dello stesso art. 23.

Sarebbe violato «anche l’art. 53 Cost., perché a fronte di una capacità contributiva omogenea che viene manifestata attraverso la percezione di pensioni complementari, si prevede un trattamento fiscale difforme e deteriore nell’impiego pubblico rispetto all’impiego privato».

Sono poi richiamati ampi passaggi della già citata sentenza n. 218 del 2019, nei quali questa Corte avrebbe evidenziato l’insussistenza di elementi idonei a giustificare ragionevolmente una disomogeneità del trattamento fiscale agevolativo.

In subordine, il rimettente ritiene che la equiparazione tra dipendenti pubblici e privati avrebbe dovuto operare «quanto meno a far data dalla scadenza del termine per l’esercizio della delega richiamata dall’art. 23, c. 6».

4.– Si è costituito in giudizio M.F. C., ricorrente nel giudizio a quo, che, dopo aver ribadito gli argomenti contenuti nell’ordinanza di rimessione, conclude chiedendo che le questioni vengano accolte.

Considerato in diritto

1.– Con l’ordinanza indicata in epigrafe (reg. ord. n. 181 del 2021), la Commissione tributaria provinciale di Latina solleva questioni di legittimità costituzionale dell’art. 23, comma 6, del d.lgs. n. 252 del 2005, in riferimento agli artt. 3 e 53 Cost., nella parte in cui, per le prestazioni pensionistiche complementari corrisposte a dipendenti pubblici, non prevede l’applicazione dell’art. 11, comma 6, del medesimo decreto a partire dal 1° gennaio 2007, come invece disposto per i dipendenti privati dal primo periodo del comma 5 dello stesso art. 23, ai sensi del quale «[p]er i soggetti che risultino iscritti a forme pensionistiche complementari alla data di entrata in vigore del presente decreto legislativo le disposizioni concernenti […] il regime di tassazione delle prestazioni si rendono applicabili a decorrere dal 1° gennaio 2007».

Oggetto del giudizio a quo è l’accertamento del diritto al rimborso dell’IRPEF che un pensionato, già dipendente dell’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), ha versato negli anni 2015, 2016 e 2017 in relazione alle prestazioni pensionistiche integrative percepite dal Fondo di previdenza per i dipendenti INPS.

In particolare, il contribuente che ha adito la Commissione tributaria si duole della tassazione subita – che ha cumulato la pensione integrativa a quella ordinaria, con applicazione dello stesso regime fiscale degli altri redditi – e ambisce a vedersi riconosciuto lo specifico regime fiscale agevolativo introdotto per le prestazioni pensionistiche complementari dal d.lgs. n. 252 del 2005. Quest’ultimo, all’art. 11, comma 6, prevede infatti che «[s]ulla parte imponibile delle prestazioni pensionistiche comunque erogate è operata una ritenuta a titolo d’imposta con l’aliquota del 15 per cento ridotta di una quota pari a 0,30 punti percentuali per ogni anno eccedente il quindicesimo anno di partecipazione a forme pensionistiche complementari con un limite massimo di riduzione di 6 punti percentuali».

Ad avviso della Commissione rimettente, l’applicazione del descritto regime ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni sarebbe tuttavia preclusa proprio dalla norma censurata, ai sensi della quale a costoro «si applica esclusivamente ed integralmente» la normativa previgente al d.lgs. n. 252 del 2005 «[f]ino all’emanazione del decreto legislativo di attuazione» dell’art. 1, comma 2, lettera p), della legge 23 agosto 2004, n. 243 (Norme in materia pensionistica e deleghe al Governo nel settore della previdenza pubblica, per il sostegno alla previdenza complementare e all’occupazione stabile e per il riordino degli enti di previdenza ed assistenza obbligatoria), ossia della specifica disposizione che avrebbe dovuto, tra l’altro, applicare il principio di delega volto a sostenere e a favorire lo sviluppo di forme pensionistiche complementari nel settore del pubblico impiego.

2.– Il giudice a quo ritiene dunque che la norma censurata vìoli sia l’art. 3 Cost., «in quanto situazioni sostanzialmente identiche, ossia le pensioni complementari, vengono trattate in modo diverso e deteriore nel pubblico impiego rispetto all’impiego privato», sia l’art. 53 Cost., «perché a fronte di una capacità contributiva omogenea che viene manifestata attraverso la percezione di pensioni complementari, si prevede un trattamento fiscale difforme e deteriore nell’impiego pubblico rispetto all’impiego privato».

3.– Le questioni sono inammissibili a causa dell’incompleta ricostruzione del quadro normativo, che si riverbera sia sul profilo della rilevanza, sia su quello della non manifesta infondatezza.

3.1.– Dall’ordinanza di rimessione emerge che: a) il contribuente ricorrente nel giudizio a quo è stato dipendente dell’INPS; b) in tale qualità, è «titolare di pensione integrativa dal 01.08.2010, erogata dall’apposito Fondo»; c) tale fondo «è cessato in data 1.10.1999».

Questi elementi descrittivi della fattispecie sono sufficienti a rivelare che il suddetto contribuente è stato iscritto al Fondo di previdenza integrativa istituito dall’INPS per i propri dipendenti molti decenni or sono e soppresso – insieme a quelli degli enti di cui alla legge 20 marzo 1975, n. 70 (Disposizioni sul riordinamento degli enti pubblici e del rapporto di lavoro del personale dipendente) – a decorrere dal 1° ottobre 1999.

Ciò in forza di quanto stabilito dall’art. 64, comma 2, della legge 17 maggio 1999, n. 144 (Misure in materia di investimenti, delega al Governo per il riordino degli incentivi all’occupazione e della normativa che disciplina l’INAIL, nonché disposizioni per il riordino degli enti previdenziali), che, al successivo comma 3, ha comunque previsto in favore degli iscritti il riconoscimento del «diritto all’importo del trattamento pensionistico integrativo calcolato sulla base delle normative regolamentari in vigore presso i predetti fondi che restano a tal fine confermate anche ai fini di quiescenza e delle anzianità contributive maturate alla data del 1° ottobre 1999».

3.2.– Il fondo di previdenza al quale il ricorrente nel giudizio a quo ha aderito è quindi preesistente all’entrata in vigore del d.lgs. n. 124 del 1993 che, a decorrere dal 28 aprile 1993, ha introdotto una disciplina organica del sistema della previdenza complementare, in attuazione dell’art. 3 della legge 23 ottobre 1992, n. 421 (Delega al Governo per la razionalizzazione e la revisione delle discipline in materia di sanità, di pubblico impiego, di previdenza e di finanza territoriale).

La vicenda all’esame del rimettente appare, pertanto, rientrare nella portata applicativa dell’art. 23, comma 7, del d.lgs. n. 252 del 2005, che stabilisce uno speciale regime fiscale transitorio «[p]er i lavoratori assunti antecedentemente al 29 aprile 1993 e che entro tale data risultino iscritti a forme pensionistiche complementari istituite alla data di entrata in vigore dalla legge 23 ottobre 1992, n. 421», prevedendo, in particolare, alla lettera b) che «ai montanti delle prestazioni entro il 31 dicembre 2006 si applica il regime tributario vigente alla predetta data».

Il riferimento ai «montanti delle prestazioni» vale a instaurare uno stretto collegamento tra il periodo temporale in cui la prestazione pensionistica andava formandosi – mediante l’accumulo dei contributi versati dal lavoratore e dal datore di lavoro, ai quali potevano aggiungersi i rendimenti della gestione del fondo – e il relativo regime tributario.

Tale collegamento, peraltro, risulta anche avvalorato dalla scelta del legislatore – compiuta con l’art. 1, comma 749, lettera c), della legge 27 dicembre 2006, n. 296, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2007)» – di sostituire con la richiamata locuzione «montanti» quella originaria, che faceva, invece, riferimento alle «prestazioni pensionistiche maturate». Quest’ultima espressione, infatti, era idonea a sottolineare il momento finale del meccanismo di formazione della prestazione pensionistica, coincidente con il verificarsi di tutte le condizioni previste dal fondo per il riconoscimento della stessa.

In questo senso, la norma transitoria dell’art. 23, comma 7, lettera b), del d.lgs. n. 252 del 2005, prescelta dal legislatore per la categoria dei cosiddetti “vecchi iscritti” ai “vecchi fondi”, comporta una segmentazione della prestazione pensionistica in base ai regimi tributari succedutisi nel periodo della sua progressiva formazione e che, in ogni caso, prescindevano del tutto (e non poteva essere altrimenti) da quella distinzione tra soggetti pubblici e privati che sarebbe poi emersa a seguito del d.lgs. n. 252 del 2005.

3.3.– La disposizione del richiamato comma 7 non è stata però considerata dall’ordinanza di rimessione, nemmeno al fine di escludere la necessità di applicarla al giudizio a quo.

Infatti, il rimettente, individuando il criterio di collegamento tra la fattispecie al suo esame e la norma censurata nella qualità di dipendente pubblico del contribuente, ha incentrato la sua attenzione sulla previsione di carattere generale di cui al richiamato art. 23, comma 6, che, per i dipendenti delle amministrazioni pubbliche, prevede l’ultrattività della normativa previgente (non soltanto di quella fiscale), precludendo l’applicazione del regime agevolato di tassazione delle prestazioni introdotto dall’art. 11, comma 6, dello stesso d.lgs. n. 252 del 2005 per i lavoratori privati. Di conseguenza ha poi evocato a sostegno della propria argomentazione la sentenza n. 218 del 2019 di questa Corte, inerente appunto a fattispecie ricomprese nell’ambito del suddetto art. 23, comma 6.

Ma, in tal modo, l’ordinanza omette di confrontarsi con il regime transitorio previsto dall’art. 23, comma 7, lettera b), del d.lgs. n. 252 del 2005 per la categoria dei cosiddetti “vecchi iscritti” ai “vecchi fondi”, in cui rientra la fattispecie del giudizio a quo.

3.4.– Va peraltro incidentalmente notato che, successivamente alla ordinanza di rimessione, la questione dell’applicabilità del regime fiscale di cui all’art. 11, comma 6, del d.lgs. n. 252 del 2005 ai “vecchi iscritti” ai “vecchi fondi” è stata risolta negativamente dalla Corte di cassazione, nelle prime occasioni in cui è giunta al suo esame, proprio sulla base dell’inerenza di tali fattispecie alla norma transitoria di cui al richiamato art. 23, comma 7 (sezione quinta tributaria, ordinanza 19 luglio 2022, n. 22665; nello stesso senso, sezione sesta civile, ordinanza 2 settembre 2022, n. 25955; successivamente, in continuità con tali pronunce, sezione quinta tributaria, sentenza 30 novembre 2022, n. 35254).

4.– In definitiva, l’incompleta ricostruzione della cornice normativa di riferimento compromette irrimediabilmente l’iter logico argomentativo posto a fondamento delle valutazioni del rimettente sia sulla rilevanza, sia sulla non manifesta infondatezza, ciò che, secondo il costante orientamento di questa Corte, rende inammissibili le questioni sollevate (ex plurimis, sentenze n. 61 e n. 15 del 2021, n. 264 del 2020 e n. 150 del 2019; ordinanze n. 147 e n. 108 del 2020).

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 23, comma 6, del decreto legislativo 5 dicembre 2005, n. 252 (Disciplina delle forme pensionistiche complementari), sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione, dalla Commissione tributaria provinciale di Latina, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 novembre 2022.

F.to:

Daria de PRETIS, Presidente

Luca ANTONINI, Redattore

Igor DI BERNARDINI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 20 dicembre 2022.